PALLADIO, Andrea
(b. 1508, Padova, d. 1580, Maser)
|
https://www.wga.hu/index_architecture.htmlBiography
Italian architect. While a young mason, he was noticed by an Italian scholar and soon found himself studying mathematics, music, philosophy, and Classical authors. He was trained as an architect in Vicenza, and later in Rome he examined the remains of Roman architecture. The measured drawings he made of these were published with compositions of his own and, based on the treatise of Vitruvius, a description of practical systems of design and proportioning. This famous work, I quattro libri dell'architectura (1570, tr. The Four Books of Architecture, 1716), has been reissued many times. It was possibly the most influential architectural pattern book ever printed.
Palladio's buildings, chiefly town palaces and villas, were executed mostly in Vicenza and its vicinity. Usually they were made of humble materials that contrasted with their formal classicism. Palladio's first important work (begun 1549) was to rebuild the medieval town hall, the basilica at Vicenza. He designed arches supported on minor columns and framed between larger engaged columns. Each of these arch-and-column compositions formed what is termed a "Palladian motif" and was much imitated. The characteristic façade of many of Palladio's country houses displayed the classic temple front-superimposed pilasters or columns or often a colossal order two stories in height and supported by a rusticated ground story. Generally in his buildings he systematized the ground plan, designing a central hall around which other rooms were grouped in absolute symmetry. Though Palladio absorbed contemporary Mannerist motifs, his plans and elevations always retained a repose and order not associated with Mannerist architecture.
Among his best-known houses (built in the 1550s and 1560s) are his most widely copied villa, the Villa Rotonda (overlooking Vicenza), the Chiericati Palace and the Valmarana Palace (both: Vicenza), and the Villa Barbaro (Maser). At Venice he adapted the classical motif to three church façades, in his designs for San Francesco della Vigna, San Giorgio Maggiore (begun 1566), and Il Redentore (begun 1576). Just before his death Palladio planned the Teatro Olimpico, in which he incorporated a permanent scenic background, built in architectural perspective.
Reviving and redesigning the ancient Roman villa for a new humanist age, Palladio set the vocabulary of architectural pattern, proportion, and ornament for much of Western domestic architecture for centuries to come. His books and buildings exerted an unparalleled influence on European and American architecture. In the 17th century, Inigo Jones imported Palladio's classic grandeur of design into England and profoundly influenced the course of English architecture. Subsequently, William Kent, Colin Campbell (1676-c. 1729), Sir Christopher Wren, Sir William Chambers, and others created a great body of works termed Palladian. In the United States his influence can be seen in the manor houses of southern plantations, e.g., Thomas Jefferson's Monticello.
PALLADIO, Andrea
Italian architect (b. 1508, Padova, d. 1580, Maser)
PALLADIO, Andrea
di Guido Beltramini - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 80 (2014)
Condividi
PALLADIO, Andrea. – Figlio di Pietro detto ‘della Gondola’, nacque a Padova nel 1508.
Città e data di nascita sono state oggetto di discussione a partire dal Settecento. La prima ha oscillato fra Padova e Vicenza, sino alla definitiva conferma documentaria di Erice Rigoni (1948-49). La nascita al 30 novembre 1508 è indicata in una precoce nota biografica redatta da Paolo Gualdo nel 1617, ma pubblicata nel 1749 da Giovanni Montenari. Essa fu contestata nel 1762 da Temanza che la pospose al 1518 sulla base dell’iscrizione su un ritratto di mano Bernardino Licinio, definitivamente dimostrata contraffatta (Shearman, 1983, p. 141). Solo nel 1922 un definitivo ritrovamento documentario di Giangiorgio Zorzi ha chiuso la questione dell’anno, anche se il giorno resta appeso solamente allo scritto di Gualdo.
Della madre conosciamo il nome, Marta. Dell’attività del padre, un tempo ritenuto un umile mugnaio, rimane traccia in alcuni documenti padovani relativi all’affitto e subaffitto di mulini, che confermano uno status di piccolo imprenditore (definito «discretus vir» e «ser» nei documenti) impegnato nella molinatura e, più tardi, nella produzione di berrette, fiorente a Padova.
Forse per il tramite dello scultore vicentino Vincenzo Grandi, che era stato suo padrino di battesimo, nell’ottobre 1521 Andrea entrò come garzone, con un contratto di 6 anni, nella bottega del lapicida padovano Bartolomeo Cavazza, ma risulta averla già lasciata nel 1523, perché nell’aprile il padre Pietro e Cavazza si accordarono a Vicenza per il reintegro del giovane nella bottega. Una lettura non storicizzata del secondo contratto di garzonato ha alimentato la leggenda di una fuga di Andrea da Padova, ma può trattarsi di uno spostamento per seguire il padre, che allora risiedeva a Vicenza nella contrada del Castello.
La formazione da lapicida, e non all’interno di una bottega di pittore o scultore, è uno degli elementi caratterizzanti l’identità artistica di Palladio, per l’abitudine al disegno come strumento finalizzato alla costruzione, per la capacità nel piegare le tecniche alle necessità espressive, per la concezione dell’architettura come sistema, fondato su modelli e schemi di riferimento.
Nell’aprile 1524 Andrea entrò nella fraglia dei tagliapietra e muratori di Vicenza come garzone dei maestri Giovanni di Giacomo da Porlezza e Girolamo di Giacomo Pittoni, artigiani associati con laboratorio ai piedi del tratto settentrionale delle mura lungo il fiume Bacchiglione, e per questo conosciuti come ‘maestri da Pedemuro’. Si trattava della più agguerrita bottega della città, in grado di realizzare portali, altari, monumenti funebri, sculture in un linguaggio aggiornato, che oggi sappiamo basato sulla conoscenza di prima mano, almeno da parte di Giovanni, delle antichità di Roma.
In contrada Pedemuro Andrea risiedeva nel 1528, senza il padre nel frattempo deceduto, e vi continuò ad abitare anche dopo il matrimonio, nell’aprile 1534, con Alegradonna, figlia del falegname Marco Antonio, che portò in dote vesti e biancheria per un valore di poco superiore ai 40 ducati. Dal matrimonio nacquero, in anni non individuati, almeno cinque figli che raggiunsero la maturità: Leonida, Marco Antonio, Orazio, Zenobia e Silla.
Il 19 febbraio 1538 Andrea è documentato per la prima volta in contatto con Giangiorgio Trissino, nobile vicentino, indicato sin dalla biografia di Gualdo come suo mentore.
La notizia che i due si siano conosciuti nel cantiere della villa di Trissino, in località Cricoli, appena fuori Vicenza, compare a stampa sin dal 1601 nell’Itinerarium di Franz Schott, ma non è sostenuta da documenti.
Il riadattamento della residenza precedente in forme ‘all’antica’ a partire dal 1534 fu probabilmente opera dello stesso aristocratico, architetto dilettante; nella planimetria della villa compare il raggruppamento di camere tra grande, media e piccola con dimensioni in proporzione, che costituì la matrice di molte planimetrie palladiane.
Fonti cinquecentesche indicano in Trissino il creatore del nome d’arte ‘Palladio’, con il quale Andrea inizia a essere registrato nei documenti d’archivi fra il 1539 e il 1540 e che divenne il nome della famiglia, trasmesso a figli. Il riferimento è a Pallade Atena (una civetta compare sul sigillo del figlio Silla) ma Palladio è anche il nome dell’angelo che supporta i soldati del generale Belisario contro i barbari nel poema epico La Italia liberata da Gotthi, pubblicato da Trissino tra il 1547 e il 1548 dopo lunga gestazione.
Il nobile vicentino, uomo di lettere e d’azione (scrisse un trattato di architettura e propose una unificazione europea di pesi misure e monete) ebbe un ruolo chiave nella formazione palladiana, a partire dalla centralità delle conoscenze del mondo greco-romano per una trasformazione del presente. Architettura, teatro, guerra degli antichi – temi prediletti del classicismo militante di Trissino – furono assi portanti anche dell’intera carriera di Palladio, dilatandone saperi e ambizioni. Nella biblioteca di Trissino Palladio poté accedere agli autori antichi e moderni, da Leon Battista Alberti a Vitruvio, da Varrone a Giulio Cesare. Attraverso i suoi racconti comprese la centralità dell’architettura nella Roma di Leone X e di Clemente VII. Al seguito di Trissino poté visitarne gli esiti e – alla sua tavola vicentina – frequentare intellettuali e artisti che rendevano la città meno provinciale. Gli interessi e gli scritti di Trissino su grammatica e poetica probabilmente influirono sulla concezione palladiana dell’architettura come sistema di elementi regolati da una grammatica e ordinati da una sintassi.
Agli anni ‘trissiniani’ della seconda metà degli anni Trenta risalgono quelli che sembrano essere fra i primi disegni conosciuti di Palladio con progetti per ville o palazzi, tracciati sui fogli oggi conservati al Royal Institute of British Architects (d’ora in poi RIBA) XVII/23 e XVII/26, dove l’eco delle recenti invenzioni di Giovanni Maria Falconetto e di Giulio Romano convive con elementi di tradizione veneta. Progressivamente Palladio si trasformò da artigiano specializzato in architetto, anche grazie a incontri con personalità in visita a Vicenza e in relazione con i Pedemuro o con Trissino, come Jacopo Sansovino (1538), Sebastiano Serlio (1539), Michele Sanmicheli (1541-42) o Giulio Romano (1542), architetto per i potenti fratelli Thiene. Il primo palazzo vicentino conosciuto, per i fratelli Civena (fondato nel 1540), mostra un linguaggio tanto affine alla villa di Cricoli da poter essere frutto di collaborazione con Trissino, di un latino architettonico scolastico, cartaceo. Nella direzione opposta la prima grande villa, realizzata entro il 1542 per Girolamo Godi nell’Alto Vicentino: alta più piani, con una planimetria antiquata (probabilmente a causa di preesistenze), è affine al tradizionale palazzo di campagna veneto più di quanto non lo sia alle successive realizzazioni palladiane.
Il ricco committente, collezionista di monete antiche e amico di umanisti come Pietro Bembo, diede un sostegno politico decisivo a Palladio in più progetti pubblici successivi. Elemento cruciale del successo palladiano a Vicenza fu la presenza di un ceto dirigente aristocratico particolarmente attivo, su scala europea, nella produzione e commercio di panni di lana e soprattutto di seta, in grado di generare risorse per le nuove architetture palladiane e offrire il punto di vista non provinciale necessario per comprenderle. A ciò va sommato l’alto livello di istruzione medio degli aristocratici vicentini, laureati all’Università di Padova in misura maggiore delle altre città venete, con competenze in architettura per le quali nel proemio al suo trattato Palladio elogiò, oltre che Trissino, figure come i fratelli Thiene, Antenore Pagello, Fabio Monza, Antonio Francesco Olivieri o Valerio Barbarano.
Determinante per gli anni di formazione palladiana fu il primo incontro con l’architettura di Roma antica, sino ad allora conosciuta attraverso le pagine di taccuini e trattati, scarni ruderi a Vicenza e, di persona, probabilmente solo tramite gli edifici teatrali e le porte della Verona romana. È stato proposto da Zorzi (1958-59), e generalmente accettato seppure sulla sola base di Gualdo, che il primo viaggio a Roma sia avvenuto al seguito di Trissino il quale partì da Murano nell’estate del 1541 e nel settembre era sulla via del ritorno.
Un controllo della grande dimensione, una articolata spazialità e una laconica nudità delle superfici del tutto inediti cominciano a emergere nei progetti dei primi anni Quaranta, inspiegabili senza una esperienza personale delle rovine romane. In particolare le terme divennero modello anche per i potenti spazi coperti da volte di mattoni che da allora caratterizzarono gli edifici costruiti da Palladio, soluzione cui giunse anche attraverso la lettura delle opere di quegli architetti come Bramante, Raffaello, Peruzzi, Antonio da Sangallo il Giovane che prima di lui si erano misurati a Roma con l’eredità antica. È il caso di ville dei primi anni Quaranta, come villa Valmarana a Vigardolo, che risente ancora della villa di Cricoli, e della villa per Taddeo Gazzotti a Bertesina, ma ancor di più della villa per i fratelli Vettore, Marco e Daniele Pisani che Palladio cominciò a costruire a Bagnolo dopo una fitta serie di progetti preliminari. I committenti, per la prima volta, furono nobili veneziani (ma il padre era stato podestà di Vicenza nel 1525), e per la loro residenza di campagna Palladio mise a punto un edificio destinato a diventare un prototipo.
Con un solo piano principale, come villa Madama di Raffaello, villa Pisani sorge su un basamento simile allo stilobate di un tempio, che accoglie gli ambienti di servizio: una doppia novità in Veneto se si esclude villa dei Vescovi a Luvigliano di Alvise Cornaro e Falconetto (concepita intorno al 1535). La sala centrale, a tutta altezza, è coperta da una volta in muratura riccamente decorata e illuminata da una finestra termale (come la cappella Paolina di Sangallo in Vaticano). Essa è partecipe di una spazialità all’antica che è innovativa rispetto al salone passante delle ville pre-palladiane, vincolato alle dimensioni del soffitto a travi di legno.
Nel 1541 il Consiglio dei Dieci sciolse d’imperio il Consiglio dei Cento, l’organo di governo vicentino, per la violenza dei contrasti all’interno delle famiglie del patriziato. La fazione sino a quel momento dominante, guidata dalla famiglia Thiene alleata con i da Porto, perse terreno rispetto agli emergenti Godi, Capra e Valmarana. È forse per questo che nell’anno successivo Marcantonio e Adriano Thiene diedero avvio alla costruzione di un palazzo a Vicenza che avrebbe dovuto occupare un intero isolato e si sarebbe affacciato sulla principale strada cittadina creando una sorta di piazza. Nell’ottobre 1542 Andrea, qualificato come lapicida, fu testimone all’accordo fra Marcantonio Thiene e i muratori, e probabilmente fornì una assistenza logistica a Giulio Romano, autore del progetto, aumentando progressivamente il proprio ruolo dopo la morte di questi nel 1546, sino ad attribuirsene l’invenzione nelle pagine dei Quattro libri. Lo stesso avvenne per la villa dei Thiene a Quinto, realizzata parzialmente intorno al 1545. A seguito del matrimonio con Lavinia, sorella dei fratelli Thiene, nell’aprile 1542, Iseppo da Porto chiese a Palladio il progetto per un palazzo a poche decine di metri da quello dei cognati (nella contrada che ospitava già diversi palazzi da Porto), rimarcando con la forza della nuova architettura la visibilità urbana della fazione. Una serie di problemi giudiziari del committente, accusato di eresia protestante, prolungò la fase progettuale, con significative variazioni, sin dopo il 1546 e il palazzo fu concluso nel 1552.
Nel 1543 Palladio ottenne il primo incarico pubblico a Vicenza, la realizzazione dell’apparato trionfale eretto in occasione della presa di possesso della diocesi da parte del vescovo Niccolò Ridolfi.
Lungo la principale strada cittadina marcata da obelischi, statue colossali e un arco quadrifronte, Palladio sovrappose a edifici preesistenti archi trionfali e fronti di templi. L’effimera scenografia a scala urbana in legno e stucco fu allestita solamente per il giorno dell’ingresso, il 16 settembre, ma prefigurò i decenni successivi dedicati a trasformare la gotica Vicenza in una nuova Roma.
Alla liquidazione del compenso, nel marzo 1545, Palladio fu qualificato, per la prima volta in un documento giunto fino a noi (Zorzi, 1965, p. 176), come architetto. Il regista dell’evento fu con ogni probabilità Trissino, amico di Ridolfi, che fu ospite nella villa di Cricoli nei giorni precedenti l’ingresso. I tre provveditori incaricati di gestire le finanze furono tutti della fazione ostile ai Thiene - da Porto, ma due di loro, Giulio Capra e Giovanni Alvise Valmarana, furono a fianco di Palladio nella successiva e cruciale ricerca di un incarico pubblico, le logge del palazzo della Ragione.
Se nell’autunno del 1545 probabilmente Palladio fu a Roma per la seconda volta con Trissino, il pittore e poeta Giovan Battista Maganza e i giovani aristocratici Marco Thiene e Giulio Loschi, si trattò di un soggiorno di pochi mesi, perché il 5 marzo 1546 il Consiglio della città di Vicenza deliberò di verificare con un grande modello di legno il disegno presentato dall’anziano Giovanni da Pedemuro e dallo stesso Palladio per le logge del palazzo della Ragione, l’edificio simbolo del potere municipale, affacciato sulla piazza principale. Per Palladio ebbe inizio una fase cruciale che culminò con l’apertura del cantiere il 1° maggio 1549 (si sarebbe chiuso solo nel 1614). Di grande visibilità (Serlio, Sanmicheli e Giulio Romano avevano presentato soluzioni alternative, che l’ultimo dei tre aveva discusso pubblicamente in Consiglio nel 1542), l’incarico consacrò Palladio come architetto della città di Vicenza e generò l’introito, modesto ma costante, di 5 scudi d’oro al mese che egli continuò a percepire fino alla morte 31 anni più tardi. Intorno al progetto palladiano si coagulò il consenso delle diverse fazioni cittadine, e accanto a Giovanni Alvise Valmarana e Giulio Capra fu posto come provveditore Girolamo Chiericati (della fazione Thiene - da Porto).
Palladio circondò con un doppio ordine di arcate l’edificio medievale preesistente, tenendo conto di aperture e percorsi grazie a una soluzione elastica, basata sull’iterazione della ‘serliana’: un arco affiancato da due aperture laterali rettangolari di larghezza variabile, in grado di assorbire le differenze di ampiezza delle campate. Le serliane gli consentirono anche di smaterializzare il muro perimetrale, permettendo alla luce di penetrare liberamente al di sotto delle volte, ma per farlo dovette costruire le arcate integralmente in pietra con nervature portanti agli estremi di ogni campata. Alla logica strutturale gotica di pilastri e volte, che costituirono un vero e proprio sistema di contrafforti, corrispose il linguaggio architettonico all’antica di colonne e semicolonne doriche e ioniche. L’esito fu un edificio senza precedenti, dove le realizzazioni contemporanee di Sansovino e Giulio Romano si fusero con la ricerca archeologica ed echi di tradizioni locali in un linguaggio personale. Palladio stesso nei Quattro libri definì l’opera «una basilica de’ nostri tempi», esplicitando la propria volontà di adattare tipologie antiche a funzioni moderne (III, p. 42), qualcosa che negli stessi anni stava realizzando con le ville.
Già in uno fra i disegni preparatori per villa Pisani a Bagnolo (RIBA XVI/7) Palladio integrò gerarchicamente la residenza padronale con due lunghe tettoie in muratura (‘barchesse’, in veneto) dove ricoverare attrezzi, localizzare stalle e altri ambienti funzionali alla gestione dell’azienda agricola. Inventare le forme di nuovi luoghi del lavoro (e insieme di salubre ritiro e quieta gestione dei propri interessi intellettuali) sarebbe stata d’ora in poi la cifra della maggior parte delle realizzazioni in campagna, anche se nelle ville vicentine degli anni Quaranta l’intenzione si scontrò con problemi economici e con la volontà (dei committenti) di conservare le strutture preesistenti. È il caso della villa per Bartolomeo Paglierino a Lanzè (1544-45, rimasta allo stato di progetto sul foglio RIBA XVI/3r a causa della morte del committente per omicidio), della villa per Vincenzo Arnaldi (progetto 1547-48), dove la ristrutturazione rimase interrotta, della villa per Biagio Saraceno (1546), mai completata, o della villa per Bonifacio Poiana (progettata intorno al 1546), dove esiste ancora oggi la barchessa palladiana separata dalla casa dominicale.
La concezione della villa come integrazione fra parte dominicale e parte rustica è qualcosa che Palladio poteva immaginare leggendo testi come il De architectura di Vitruvio (VI, 6) ed equivocando rovine di edifici antichi, quali i resti del tempio di Ercole Vincitore a Tivoli scambiato per una villa imperiale, con la cella interpretata come residenza circondata da barchesse a ‘L’, in realtà portici.
Furono questi gli anni del più lungo fra i soggiorni a Roma, per circa otto mesi, dall’autunno del 1546 al luglio 1547, l’unico ad avere effettivo riscontro nei documenti.
Palladio risiedette con Giambattista Maganza nella casa di Marco Thiene (forse nella residenza in campo Marzio che questi aveva affittato insieme a Trissino nel gennaio 1546), e il 20 maggio 1547 viene descritto in una lettera di Thiene (Morsolin, 1894, p. 279 n. 3) come intento a esplorare le rovine a Tivoli, Palestrina, Porto e Albano. Una successiva testimonianza di Maganza (Beltramini - Demo, 2008, pp. 130 s.) racconta anche di un’intensa vita sociale, con banchetti in palazzi cardinalizi alla presenza di intellettuali e gentiluomini, fra i quali è indicato il fratello del cardinale Rodolfo Pio da Carpi. Notazione che potrebbe dare una qualche sostanza alla notizia, riportata da Gualdo senza altri riscontri, di un quarto viaggio a Roma nel 1549 per un coinvolgimento nel cantiere della basilica di S. Pietro (allora governato da Michelangelo e amministrato da Rodolfo Pio) non andato a buon fine per la morte di Paolo III Farnese, anche se le presenze certe di Palladio a Vicenza lascerebbero una finestra di sole quattro settimane al finire dell’anno, fra il 24 novembre e il 24 dicembre.
Nel luglio 1547 Palladio rientrò a Vicenza da Roma portando con sé i primi nove libri de La Italia liberata da Gotthi, di Trissino. È possibile che avesse fornito i disegni del frontespizio e della tavola con la ricostruzione dell’impianto del castrum di Belisario, il suo primo disegno architettonico comparso a stampa.
La consuetudine con l’ambiente editoriale fu un altro elemento importante del lascito di Trissino a Palladio. Gli esiti grafici dei viaggi romani degli anni Quaranta sono individuabili fra i disegni palladiani del RIBA non solo per la caratteristica tecnica di disegno in proiezione ortogonale ma anche per il mutare della grafia delle annotazioni intorno alla fine del decennio, come proposto da Burns nel 1973.
Il 15 novembre 1550, il provveditore alla costruzione delle logge del palazzo della Ragione, Girolamo Chiericati, annotò un pagamento di 4 scudi d’oro a Palladio per i disegni di planimetria e facciata del proprio palazzo, tracciati nei mesi precedenti.
Complice la necessità di mantenere un porticato al piano terreno, Palladio si allontanò dal consolidato modello di palazzo di origine bramantesca, con basamento bugnato e piano superiore nobilitato dall’ordine architettonico applicato alla muratura. Protagoniste furono invece le colonne libere, sia lungo tutto il piano inferiore, sia al piano nobile, tamponato solo nella parte centrale. La scelta espressiva dovette molto a Peruzzi e a Sanmicheli, ma fu la sapienza di cantiere a renderla possibile: per ovviare ai costi di un uso estensivo di colonne in pietra, Palladio rigenerò la tradizione medievale delle colonne libere in mattoni, configurandole all’antica e rivestendole con ‘terrazzetti’, intonaci in grado di imitare la superficie lapidea. Posto su uno spiazzo informe di fronte al porto fluviale cittadino (che dava senso alle grandi logge al piano nobile), il palazzo ordina lo spazio urbano, attestandosi come il frammento di un edificio porticato sul lato del Foro romano: ciò almeno nelle intenzioni dell’architetto, perché il cantiere si arrestò alla quarta campata, e rimase incompiuto sino a fine Seicento. A poco più di un anno dalla apertura del cantiere della Basilica, da allora in avanti l’eclettismo del primo decennio lasciò il passo, per sempre, al linguaggio maturo del Palladio architetto.
In coincidenza con l’aprirsi di una nuova stagione nella carriera del proprio protetto, l’8 dicembre 1550 morì a Roma Trissino. Gli incarichi cominciarono a spingere Palladio al di fuori dai confini della città e del territorio vicentino. Se nel 1549 aveva disegnato la loggia del Consiglio di Feltre, nel settembre 1550 il Consiglio generale bresciano gli commissionò un parere per il completamento del palazzo municipale. Nel 1552 fu richiesto a Innsbruck e a Trento, e intorno al 1554 stese una memoria sul modello del porto di Pesaro di Bartolomeo Genga, abbozzata sul foglio RIBA XVI/9v; nel 1556 ebbe inizio la costriuzione dell’arco Bollani e di palazzo Antonini a Udine. Contestualmente si rafforzarono i legami con patrizi veneziani, che gli affidarono la costruzione delle proprie ville nella pianura veneta. Al salto di scala della committenza corrispose un articolarsi della ricerca progettuale delle case in campagna. Le prime occasioni riguardarono due ville-palazzo, caratterizzate entrambe da grandi logge sovrapposte, una appena fuori le mura di Montagnana (1553) per Francesco Pisani, e la seconda a Piombino Dese per Giorgio Cornaro (1553). In quest’ultima, la loggia viene raddoppiata in facciata, dove aggetta coronata dal frontone, mentre quasi contemporaneamente un pronao di tempio antico appare per la prima volta applicato al corpo di una villa nel progetto per Giovanni Chiericati, fratello di Girolamo, a Vancimuglio.
Palladio nei Quattro libri sostiene che furono i templi a ispirarsi alle case private nell’utilizzo dei frontoni, e non viceversa (II, p. 69) e in effetti uno di essi corona la ricostruzione della casa romana da lui eseguita per l’edizione illustrata di Vitruvio curata da Daniele Barbaro nel 1556. Il frontone, così come già i grandiosi spazi voltati delle sale delle ville, traslano nell’architettura residenziale temi e associazioni dell’architettura sacra, con l’esito inevitabile di una sacralizzazione della vita quotidiana, che nel 1969 Tafuri collegava alle posizioni legate alla riforma protestante di numerosi committenti palladiani vicentini, come Iseppo Porto, la famiglia Thiene e lo stesso figlio di Palladio, Orazio, o quello di Trissino, Giulio.
Nelle ville dei maturi anni Cinquanta si realizzò pienamente l’integrazione fra casa dominicale, aia, barchesse, depositi, torri colombarie in nuce negli anni vicentini. Nella villa per Francesco Badoer (terminata nel 1556) a Fratta Polesine le barchesse si curvano ad accogliere i visitatori, come i portici di un tempio antico, una struttura reinterpretata nella villa per i fratelli vicentini Odoardo e Teodoro Thiene a Cicogna Padovana (progetto da collocarsi fra il 1557 e il 1563). Il processo di ideazione della villa per Leonardo Mocenigo lungo il Brenta (1559) approda alla soluzione inedita di due barchesse curvilinee gemelle su entrambi i fronti della casa. Per Mocenigo, Palladio ristrutturò anche un palazzo a Padova (1558 e 1560) e una seconda villa a Marocco (1561 circa). Ma non si tratta di una linea di ricerca esclusiva: intorno al 1554 progettò una villa suburbana priva di barchesse per Niccolò e Alvise Foscari ai margini della laguna veneziana. È all’incirca l’anno dell’altare per la chiesa di S. Pantalon, oggi distrutto, in cui furono coinvolti gli stessi due fratelli Foscari, e che risulta la prima opera di Palladio nella città di Venezia. Nella villa per Leonardo Emo a Fanzolo (anch’essa della seconda metà degli anni Cinquanta) l’integrazione fra le parti è ottenuta con un processo di depurazione formale che ha pochi precedenti.
Allineandosi al tracciato rettilineo della antica via consolare romana Postumia poco distante, Palladio dispose corpo padronale, barchesse e torri colombarie lungo un’unica direttrice. Una sorta di minimalismo caratterizza anche il disegno della facciata, dove sono eliminate le mostre in pietra delle finestre, ridotte a semplici aperture tagliate nell’intonaco.
Poco lontano, alle pendici di una collina a Maser, la grande villa per i fratelli Daniele e Marcantonio Barbaro (prima metà degli anni Cinquanta) si impone con una ricchezza formale che la avvicina alle residenze cardinalizie romane come villa Giulia a Roma (analogia colta da Vasari), e con apparati decorativi eccezionali. Sorta su preesistenze che ne condizionarono la forma, la villa fu probabilmente frutto di un affollato tavolo da disegno con i due fratelli, se non anche con l’autore degli affreschi, Paolo Veronese. Sulla base di una consuetudine che, almeno per Daniele, risaliva agli ambienti trissiniani, i Barbaro furono al fianco di Palladio nei decenni successivi in imprese edilizie ed editoriali. Daniele lo chiamò a collaborare alla pubblicazione nel 1556 del trattato di Vitruvio, di cui curò la traduzione italiana e il commento al testo, affidando all’architetto la restituzione della maggioranza delle illustrazioni.
Per consentire il controllo di forme e proporzioni, i templi, i teatri e le case ricostruiti sulla base del testo furono tracciati in proiezione ortogonale, e al fine di renderne visibile ogni parte Palladio rese trasparenti alcuni elementi in primo piano: un innovativo sistema di rappresentazione che ebbe influssi anche sul rinnovamento del suo linguaggio negli anni Sessanta.
Tradizionalmente gli studi preparatori per la realizzazione delle illustrazioni del Vitruvio sono collegati con un quinto viaggio a Roma nel 1554, che Gualdo afferma effettuato con non precisati gentiluomini veneziani, legandolo cronologicamente alla pubblicazione dei due primi libri che recano il nome di Palladio sul frontespizio, pubblicati in quell’anno a Roma dall’editore Vincenzo Lucrino: la Descrizione delle chiese di Roma e L’antichità di Roma (quest’ultima edita nello stesso anno anche a Venezia da Matteo Pagan).
La Descrizione è una breve guida per i visitatori della Roma sacra, che si snoda lungo quattro percorsi di visita alle chiese cittadine, con attenzione a temi storici e religiosi. Le Antichità cercano invece di rendere con uno sguardo sintetico la topografia, i monumenti, ma anche le istituzioni e i costumi dell’antica Roma. Concepito come un agile prodotto di consumo, Palladio non vi riversò gli esiti delle sue capillari indagini sulle rovine, come avrebbe fatto col Vitruvio. Tuttavia l’idea di offrire uno sguardo complessivo sulla cultura romana in tutti i suoi aspetti fu un progetto editoriale non scontato per quei tempi.
Evidentemente l’ormai esperto costruttore voleva proiettare un’immagine di sé anche come uomo di pensiero, inaugurando un cammino – sul solco del Trissino – che lo caratterizzò per i decenni successivi. Va in questa direzione la sua presenza fra i 21 intellettuali e aristocratici che fondarono nel 1555 a Vicenza l’Accademia Olimpica, devota allo studio delle arti, delle scienze matematiche e del mondo antico. E ancor più l’informazione offerta dalla Seconda libraria, pubblicata da Anton Francesco Doni nello stesso anno, che Palladio stesse lavorando a un trattato di architettura, ancora senza nome, dedicato a diversi tipi di edifici e sui monumenti antichi. Nel 1556 fu Daniele Barbaro ad annunciare nel Vitruvio la prossima uscita di un libro palladiano sulle case private.
Secondo Barbaro gli edifici palladiani si misurano alla pari con quelli antichi, sono modelli per i contemporanei e saranno ammirati dai posteri. L’elogio riecheggia l’identificazione, da parte di un settore della classe dirigente veneziana, delle nuove ragioni dell’edificare palladiano come una metafora di intervento razionale di trasformazione non solo del territorio e dell’immagine urbana di Venezia, ma anche delle sue forme istituzionali consolidate, dal diritto alla difesa dello Stato. Tali famiglie – oltre ai Barbaro, ai Grimani, ai Cornaro, ai Foscari – erano accomunate da interessi antiquari e intrecciavano rapporti privilegiati con la S. Sede, monopolizzando i benefici ecclesiastici nella Serenissima.
Il 5 marzo 1555 è registrata nell’amministrazione del cantiere delle logge vicentine una richiesta formale di Palladio per potersi assentare a causa di impegni di lavoro legati a patrizi veneziani non esplicitati. Ormai era chiaro che la capitale aveva cominciato a esercitare un’attrazione sempre più forte, anche se l’anno precedente Palladio aveva misurato sulla propria pelle le difficoltà di un uomo della terraferma di riuscire a entrare nei ranghi dei funzionari della Serenissima. Il 19 gennaio 1554 Pietro Guberni gli era stato preferito nella nomina a proto all’Ufficio del Sale, uno dei vertici tecnici della macchina statale. L’anno successivo, tuttavia, il 22 gennaio il Senato fu chiamato a votare un progetto di Palladio per la realizzazione della Scala d’oro in Palazzo ducale a Venezia, messo in gara contro quelli dello stesso Guberni, di Giovanni Antonio Rusconi e di Jacopo Sansovino. Risultò vincitore quest’ultimo, proto della potente Procuratia de Supra, ma per Palladio fu una prima chiamata ufficiale al servizio dello Stato veneziano.
Negli stessi anni Palladio continuò a lavorare a Vicenza per committenti pubblici e privati. Nel 1555 costruì un palazzo per Bonifacio Poiana, rimasto incompiuto; di un paio d’anni più tardi è il progetto del palazzo per Ludovico e Francesco Trissino su contrà Riale, documentato nei Quattro libri (II, pp. 73 s.). Accanto al cantiere della Basilica, a partire dal 1558 (e fino al 1565) si aprì quello per la realizzazione della cupola della chiesa cattedrale, amministrato dallo stesso Francesco Trissino e dall’antico patrono Girolamo Godi.
Nel territorio, oltre alla villa Ragona a Ghizzole (1559), oggi pesantemente modificata, Palladio realizzò per Giacomo Angarano il suo primo ponte a noi noto, sopra il fiume Cismon (1550), in legno e a campata unica per non confliggere con la flottazione dei tronchi dalla montagna. Un altro ponte ligneo fu realizzato a Vicenza, nei pressi di porta S. Croce (1559), nello stesso anno in cui Palladio intervenne con un ampliamento del ponte degli Angeli, questa volta in muratura.
I ponti in legno a campata unica furono sviluppati da Palladio a partire da una rilettura delle grandi capriate delle coperture nelle chiese medievali venete e sarebbero stati un modello per gli ingegneri sino all’Ottocento. L’interesse ebbe anche risvolti antiquari, portandolo alla restituzione del funzionamento del mitico ponte sul Reno descritto da Giulio Cesare con cui si erano misurati Giocondo, Pietro Bembo e Gerolamo Cardano. Con le carpenterie lignee Palladio dovette misurarsi quando l’inserimento del frontone templare rese ben più complessa la tradizionale struttura a capanna dei tetti delle ville venete. Un interesse per la carpenteria navale emerge in una lettera del 31 luglio 1560 (Zador, 1966, p. 141 n. 11) relativa al fasciame di un galeone, e due tavole della edizione illustrata delle Storie di Polibio (da lui curata nel 1580) sono dedicate alla quinquereme romana.
Gli stretti legami dei sostenitori veneziani di Palladio con il mondo della Curia romana fecero sì che il suo affermarsi nella capitale della Serenissima, alla fine degli anni Cinquanta, avvenisse con incarichi di edilizia religiosa, a partire dal progetto per la nuova facciata della chiesa di S. Pietro di Castello, sede patriarcale. Nel gennaio 1559, alla presenza di Marcantonio Barbaro fu firmato il contratto con i lapicidi, anche se il cantiere presto si arenò a causa della repentina morte del committente, il patriarca Vincenzo Diedo, e la facciata fu realizzata, con alterazioni, solo alla fine del secolo. Ma a partire dall’anno seguente presero avvio i cantieri di due grandi residenze collettive, il refettorio e servizi del monastero benedettino di S. Giorgio (1560) e la residenza dei canonici lateranensi della Carità (1561), entrambi affiliati a Ordini religiosi colti, ricchi e potenti, in particolare il primo, fra i monasteri più importanti della Congregazione cassinese.
A fronte di temi progettuali inediti per tipologia, dimensioni e risorse finanziarie, nel ventennio veneziano Palladio ricercò una restituzione integrale della ricchezza formale degli ambienti antichi, concepita come esperienza spaziale in movimento e controllo della grande scala. Il refettorio di S. Giorgio è un frammento delle antiche terme (e una prova di maestria tecnica, perché la grande copertura è la prima volta all’antica in muratura costruita a Venezia). Nella Canonica della Carità, il tema è la ricostruzione della domus romana, come complesso edilizio articolato e di grandi dimensioni, con un atrio scoperto all’antica e un peristilio a tre ordini di arcate in cui Palladio si misura con la dimensione trionfale di palazzo Farnese.
Dal 1° giugno 1561 fu ingaggiato a 40 scudi l’anno come soprastante alla fabbrica della Carità. È possibile che l’aumento degli impegni avesse generato qualche frizione a Vicenza, dove fra maggio e luglio 1560, approfittando delle difficoltà economiche causate da inondazioni e carestia dell’annata precedente, si tentò di arrestare il cantiere della Basilica e di conseguenza anche lo stipendio palladiano. La proposta fu sconfitta in Consiglio dalla fazione guidata da Marcantonio Thiene, ripresentata nell’aprile 1563 e nuovamente respinta. In effetti gli incarichi si susseguirono fitti non solo a Venezia, ma anche a Bergamo, dove Palladio fornì il progetto per il nuovo duomo (1561-62), a Brescia per il palazzo della Ragione (1562), a Verona per due palazzi per Giambattista della Torre e ville per i potenti cugini Sarego, a Udine per la sistemazione della via di accesso al castello (1563), a Cividale per il palazzo pretorio (1564). A Vicenza in occasione di una recita del Carnevale del 1561 Palladio allestì nel palazzo della Ragione, per conto dell’Accademia Olimpica, un teatro effimero all’antica dove l’anno seguente fu fra i registi della messa in scena della Sofonisba di Trissino. Nel 1563 progettò l’andito e il portale per l’accesso laterale alla cattedrale vicentina finanziato da Paolo Almerico e quindi una villa per Gianfrancesco Valmarana a Lisiera (1563-64); il 6 marzo 1564 il Consiglio approvò, 116 voti contro 7, l’avvio della costruzione del secondo ordine delle logge della Basilica.
Il 13 aprile 1564 la figlia Zenobia sposò l’orafo Battista della Fede, con una dote di 400 ducati, una somma quasi dieci volte superiore a quella con cui si era sposata sua madre nel 1534 e comparabile a quella della figlia di un facoltoso mercante.
Dal matrimonio nacquero Enea, che risulta deceduto prima del 1578, e Lavinia, che nel 1596 sposò Tomasello Tomaselli, con una dote di ben 3500 ducati (di cui 500 legati da suo zio Silla). Lavinia morì nel 1629 dopo aver avuto undici figli: Pietro, Novello, Giovanni Battista, Giustina, Elena, Ortensia, Altadonna, Anna, Ottavia, Zenobia e Ginevra. Nella linea maschile non risultano figli di Leonida, Marcantonio o Orazio, ma solo una paternità tardiva di Silla, nel 1591 con tal donna Issabetta, domestica di casa; al bambino furono imposti i nomi di Andrea Orazio Leonida.
Il matrimonio di Zenobia ebbe luogo in casa di Giacomo Angarano (il futuro dedicatario dei primi due dei Quattro libri) in assenza di Palladio, rappresentato dal figlio Orazio, probabilmente a causa dell’infittirsi degli incarichi. Il 2 novembre 1564 Palladio inviò a Montagnana i disegni per il nuovo coro della cattedrale, ma contemporaneamente era impegnato nella progettazione della facciata della chiesa veneziana di S. Francesco della Vigna (1564-65), a completamento dell’edificio costruito dal Sansovino a partire dal 1534. La preferenza accordata a Palladio fu la spia di un cambiamento di gusto e prospettive della committenza, in questo caso del patriarca di Aquileia Giovanni Grimani (di cui Daniele Barbaro era successore designato), proprietario di una celebre raccolta d’opere antiche e moderne nel palazzo di S. Maria Formosa.
Nel disegno della facciata della chiesa, interamente in pietra d’Istria, Palladio cercò di adattare il frontone del tempio antico al corpo di una chiesa cristiana, un problema con cui si erano misurati anche Bramante, Peruzzi e Antonio da Sangallo il Giovane. Affiancando al timpano principale, dimensionato sulla navata centrale, due semitimpani in corrispondenza delle cappelle laterali (erudita citazione dai mercati Traianei), Palladio riuscì a controllare le intersezioni fra ordini maggiori e minori, anche grazie agli studi che lo avevano impegnato nella ricostruzione della basilica di Fano per il Vitruvio del 1556. L’esito è brillante, ma non risolve completamente il problema, che avrebbe trovato una soluzione matura solo nella facciata del Redentore.
In una delle rare notazioni personali superstiti, il 23 febbraio 1565 (Temanza, 1762, p. 20) Palladio si lamentò con Vincenzo Arnaldi della faticosa realizzazione di un teatro ligneo all’antica a Venezia per la Compagnia degli Accesi. Nella stessa città e negli stessi momenti, in parallelo alla progettazione della cappella per Leonardo Mocenigo nella chiesa di S. Lucia (se non dell’intera chiesa), prese corpo il progetto più impegnativo dagli anni della Basilica: la chiesa del monastero di S. Giorgio. Nel novembre 1565 risulta in costruzione il modello ligneo e nel marzo 1566 prese avvio un cantiere complesso per dimensioni, prestigio del luogo, vincoli dati dalle tradizioni liturgiche dell’Ordine. I lavori si svolsero in due campagne, la seconda dopo la morte di Palladio (1581-89). La facciata, concepita con un pronao a colonne colossali, fu invece costruita fra il 1597 e il 1610 come prospetto piano.
Compatibilmente con le esigenze del culto cristiano e la tradizionale tipologia delle chiese benedettine cassinesi, il progetto nacque da una riflessione sugli spazi termali, con la navata strutturata come un antico frigidarium. Il pronao in facciata, senza precedenti se non in disegni di Michelangelo per S. Pietro a Roma, avrebbe esaltato il carattere antiquario. L’interno della chiesa fu ideato con parti in muratura dipinte di rosso (pilastri dell’ordine minore, paraste del tamburo, finestre termali, arconi), una bicromia occultata da Baldassarre Longhena a metà Seicento (ma la colorazione sussiste ancora sotto il bianco intonaco attuale). L’uso di un sottile strato di stucco pigmentato su fusti delle colonne e fasce dell’ordine, comparso per la prima volta in villa Foscari, poi sul prospetto del cortile interno della Carità, e successivamente anche nella loggia del Capitaniato a Vicenza, è parte integrante del linguaggio palladiano fra la fine degli anni Sessanta e il decennio successivo.
Il 23 settembre 1565 fece ingresso a Vicenza il vescovo Matteo Priuli, con un apparato disegnato da Palladio che riecheggiò, in tono minore, quello di Ridolfi. Nel maggio 1566 Giorgio Vasari fu a Venezia e incontrò Palladio, probabilmente grazie al comune amico Cosimo Bartoli. Rientrò a Firenze forse con un disegno per la propria collezione (oggi al Szépmüvészeti Múzeum di Budapest, inv.1989) e con abbastanza informazioni da dettagliare un lungo profilo dell’architetto nella seconda edizione delle Vite del 1568, all’interno di quella di Jacopo Sansovino.
Vasari elenca 27 realizzazioni, annota peculiarità costruttive e non manca di lodare l’amabilità e l’instancabile produttività dell’autore. Fu una prima sommaria biografia e, di fatto, una consacrazione. È possibile che l’incontro sia stato di stimolo per Palladio al fine di sviluppare una serie di idee per il ponte di Rialto, una pubblicata nei Quattro libri (III, pp. 26 s.) e una rimasta su carta, oggi conservata al Museo civico di Vicenza (D.25 rv). Alla sintonia con Vasari Palladio dovette senza dubbio, nell’ottobre 1566, l’elezione nella Accademia del disegno, unico architetto non fiorentino.
La scala dimensionale e il prestigio degli interventi a Venezia, dove i documenti lo provano soggiornare sempre più spesso, riverbera a Vicenza con una serie di progetti di una complessità compositiva non raggiunte in precedenza. Con la facciata del palazzo per la famiglia di Giovanni Alvise Valmarana (1566) Palladio traspose in un edificio civile le ricerche sulla sovrapposizione di piani sperimentate nelle chiese veneziane, mentre nella loggia del Capitaniato (progettata forse nel 1565 e realizzata nel 1570-71), complice un lotto d’angolo con una facciata sulla piazza e una sulla strada accanto, la compenetrazione è spinta a livello tridimensionale. Con la villa per Paolo Almerico, nota come la Rotonda (1566) la ricerca torna sul registro antiquario dando vita alla più mentale delle realizzazioni palladiane.
Appena fuori Vicenza il sito della Rotonda richiama quello della villa Tuscolana di Plinio, un lieve poggio circondato da un anfiteatro di colli. A pianta quadrata, la villa mostra quattro fronti identici, ognuno con un pronao di tempio, punti di stazione privilegiati da cui è messa in scena l’osservazione del paesaggio circostante. La sala centrale, rotonda, è coperta da una cupola, portando al culmine la traslazione delle forme templari antiche nell’architettura civile. L’eccezionalità dell’edificio non sfuggì ai contemporanei e Giambattista Maganza in un sonetto (1610, p. 96) la ascrisse all’estrema libertà che Almerico aveva garantito all’inventiva dell’architetto. Ma nessuno dei due vide mai l’edificio costruito, che fu completato solo nel 1591.
Nel giugno 1566 fu in visita a Vicenza Emanuele Filiberto di Savoia, che in città contava sostenitori fedeli come i Piovene e i Godi. È possibile che Palladio, legato a entrambe le famiglie, lo incontrasse in questa occasione, e ciò spiegherebbe un documentato viaggio in Piemonte intorno al giugno 1568, senza esiti professionali conosciuti. Due anni più tardi Palladio dedicò al Savoia il terzo e il quarto dei Quattro libri.
Dopo palazzo Valmarana, intorno al 1569 sperimentò almeno due volte l’applicazione di un ordine gigante alla facciata di un edificio civile, nella residenza dei fratelli Giuliano e Guido Piovene (demolita nell’Ottocento), e nel progetto preliminare commissionato da Montano Barbarano per la ristrutturazione del grande palazzo di famiglia, di cui venne ribaltato l’orientamento perché si affacciasse sulla contrada dove già insistevano quelli di Iseppo Porto e dei fratelli Thiene, e che – superata la Strada grande – fiancheggiava la loggia del Capitaniato per raggiungere infine la Basilica: di fatto una ‘Palladio street’. La facciata di palazzo Barbarano fu poi costruita con due ordini di semicolonne, applicate a un basamento rivestito con monoliti di pietra, di cui Palladio controllò di persona la posa in opera nel luglio 1570.
All’interno si apre il più magnificente degli atri palladiani, che introduce in un cortile dove è evocata una sezione del peristilio della domus romana, con un doppio ordine di colonne libere ioniche e corinzie. Differenziandosi dalla tradizione locale che lo voleva anodino ambiente di attraversamento, Palladio dà forma architettonica all’androne di accesso ai suoi palazzi, trasformandolo in cerniera fra lo spazio della strada e il privato della casa. L’atrio palladiano è caratterizzato da colonne su cui si impostano volte in muratura che sostengono il pavimento della grande sala a piano nobile. La spazialità è quella di terme e basiliche antiche, e si evitano soffitti a travi di legno, a luce limitata e vulnerabili al fuoco. Nell’invenzione palladiana confluiscono riflessioni teoriche sulla domus antica e modelli di ambienti a volta su colonne, sia di Roma sia della Vicenza quattrocentesca.
Nell’ottobre 1569 Palladio fu pagato per il modello del ponte ligneo sul fiume Brenta a Bassano, più volte distrutto e ricostruito nei secoli, ma sempre conforme al disegno originario. Nello stesso anno, al culmine di una rissa, il figlio maggiore Leonida uccise a coltellate un uomo cui aveva insidiato la moglie e fu processato ma non risultano condanne.
Il 9 aprile 1570 morì a Venezia Daniele Barbaro, senza poter vedere finalmente stampata l’opera palladiana che aveva annunciato 14 anni prima: I quattro libri dell’architettura. Il 21 aprile un decreto del Senato concesse all’editore Domenico de’ Franceschi il privilegio di stampa, e 1° novembre è datata la dedica a Giacomo Angarano.
Pur rielaborato fino all’ultimo, come si allude nel testo e dimostra la richiesta di privilegio per un volume articolato in soli tre libri, il trattato è frutto di una gestazione trentennale. Già l’impaginazione di diversi progetti dei primi anni Quaranta, infatti, lascia presupporre l’intenzione di una pubblicazione, sulla scia dei volumi di Serlio, editi a partire dal 1537. Dai riferimenti di Doni e Barbaro si può dedurre che alla metà degli anni Cinquanta esistesse un manoscritto del trattato, organizzato intorno ai progetti palladiani, con una parte dedicata agli edifici antichi. Stando a Vasari, che probabilmente vide il manoscritto nel 1566, a questi ultimi sarebbero stati dedicati due di tre libri. È tuttora conservato un manoscritto nella Biblioteca del Museo Correr di Venezia (Codice Cicogna 3617) con diverse campagne di stesura databili al 1561-66, non autografe ma con tracce di interventi palladiani, in una configurazione in tre libri che sostanzialmente corrisponde ai contenuti dei primi due poi pubblicati.
La complessità della vicenda editoriale proseguì anche dopo la princeps, con la pubblicazione autonoma nello stesso 1570 de I due libri dell’architettura e de I due primi libri dell’antichità, dimostrativi della volontà di proseguire nella pubblicazione di altri monumenti antichi, che nel testo vengono indicati in teatri e anfiteatri, archi, terme e acquedotti.
Palladio offre al lettore una sintetica presentazione dei materiali e delle tecniche del costruire, una sistematica illustrazione dei cinque ordini e una restituzione integrale di strutture viarie, ponti, templi ed edifici pubblici e privati di Roma antica, effettuata sulla base del testo di Vitruvio e delle rovine, ma ricostruendone l’aspetto originario. A corredo di tutto inserisce i propri progetti, frutti di una classicità intesa ancora come lingua viva da cui siano estratte forme e tipologie per rispondere a esigenze contemporanee. Con un rigore concettuale derivato da Alberti, lontano dalla manualistica di Serlio ma consapevole della efficacia normativa del libro a stampa, i Quattro libri sono lo strumento di comunicazione di un sistema architettonico razionalmente componibile e trasmissibile, in grado di far rinascere, negli intenti dell’autore, la grande architettura antica. Un sistema organizzato come una lingua, composto da una ben selezionata gamma di elementi (sale, scale, porte, finestre...) governati da regole aggregative delle parti fra loro e con il tutto, dalle misure proporzionali alle organizzazioni spaziali. Non interessato a definire modelli fissi, ma piuttosto le dinamiche delle variazioni possibili, Palladio, come nei trattati cinquecenteschi sugli schieramenti delle truppe in battaglia, nei Quattro libri schematizza i propri progetti, li astrae dal contesto orografico ponendoli sulla pagina bianca (un breve testo rende conto delle caratteristiche del sito), e rendendoli in tal modo disponibili a essere sviluppati e tradotti in contesti diversi. Fu la formula di un successo che influenzògrande parte della architettura civile occidentale nei secoli successivi.
Nel gennaio 1569 l’ambasciatore imperiale a Venezia, incaricato di selezionare i migliori architetti per un incarico a Vienna, aveva indicato Palladio come secondo solo a Sansovino. Morto quest’ultimo nel novembre 1570, dopo aver dominato la scena dagli anni Venti, per Palladio si aprirono spazi inediti. Pur continuando a percepire regolarmente i 5 scudi d’oro al mese per la sovrintendenza del cantiere della Basilica, oramai il baricentro della sua attività era divenuto soprattutto veneziano, città nella quale allora Palladiosembra risiedesse anche con la famiglia.
A Vicenza, dopo i primi anni di residenza in contrada Pedemuro, Palladio nel 1552 risulta abitare nei pressi del Castello (forse in una casa di Orazio e del nipote Francesco Thiene), ma nel 1566 dichiarava di risiedere in un’area oltre ponte degli Angeli, presso la casa di Giacomo Angarano e di Fabio Monza, mentre nel 1569 e ancora nel 1579 l’estimo cittadino lo coglie poco lontano, accanto alla residenza di Odoardo Thiene e suo affittuario. Non si ha notizia di una casa di proprietà a Vicenza (la cosiddetta ‘casa del Palladio’ è una invenzione settecentesca: Muttoni, 1760, pp. 33 s.). L’unica proprietà immobiliare conosciuta a Venezia è una casa con annessa tintoria a S. Maria Formosa, comprata l’11 gennaio 1570 per 65 ducati, ma non è chiaro se sia la residenza cui fanno riferimento i documenti a partire dal 1572. Sicuramente almeno dall’inverno del 1579 Palladio risiedeva nel palazzo di Giacomo Contarini ‘degli Scrigni’ sul Canal Grande, dove gli venne indirizzata più di una lettera.
Anche se non sostituì mai formalmente Sansovino (proto della Procuratia de Supra, il cui incarico venne svolto da Simeone Sorella), per tutti gli anni Settanta Palladio fu l’architetto di maggior prestigio nella capitale. A differenza della prospera Vicenza degli anni Quaranta, tuttavia, la Serenissima era costretta a convogliare le risorse pubbliche nel tentativo di arginare l’aggressività turca nel Mediterraneo, e fu flagellata da una micidiale pestilenza. Le occasioni di grandi cantieri pubblici furono perciò rare. Le competenze di Palladio comunque furono richieste anche oltre i confini della Serenissima. Al 3 luglio 1570 data il parere sui lavori di ampliamento e completamento del duomo di Milano, richiesto a Palladio – e ad altri grandi architetti del tempo – da Martino Bassi, che lo stampò nel 1572, a tutti gli effetti un’ ulteriore pubblicazione palladiana. Del 1571 è la notizia di un progetto per la chiesa dell’Escorial, oggi irrintracciabile. Dopo un sopralluogo a Bologna nel luglio 1572 Palladio elaborò, insieme all’architetto bolognese Antonio Morandi detto il Terribilia, un primo sfortunato progetto per la facciata della basilica di S. Petronio, con compromessi legati alla speranza di un incarico che non riuscì a decollare.
Nel 1572 realizzò con Rusconi una villa di fronte al mare al Lido di Venezia per Daniele Pisani, uno dei tre fratelli committenti, trent’anni prima, della villa di Bagnolo e di un palazzo a Padova presso gli Eremitani nel 1556 (oggi distrutto). Nello stesso anno, e sempre per un antico committente, Iseppo da Porto, diede inizio al cantiere di una grande villa a Molina di Malo, ispirata alla ricostruzione della casa dei greci pubblicata nei Quattro libri, di cui restano dieci enormi fusti di colonne. Sono i due ultimi progetti di villa a oggi conosciuti.
Sul piano personale il 1572 fu un anno nefasto. Nei primi giorni di gennaio morì il figlio maggiore Leonida e dopo un paio di mesi anche il terzogenito Orazio, laureato in diritto civile e canonico a Padova nel 1569, e che l’anno prima era stato inquisito dal S. Uffizio in merito a contatti con protestanti conclamati come Odoardo Thiene, amico committente vicentino del padre e fuggito a Ginevra. Qualche mese dopo anche Alegradonna risulta essere stata in pericolo di vita, seppure ristabilitasi nell’ottobre.
Nel maggio 1574 un incendio devastò in Palazzo ducale le sale del secondo piano che ospitavano il Senato e altri alti uffici, e Palladio fu incaricato del ripristino di portali e soffitti, insieme a Rusconi e al proto al Sal Antonio da Ponte, un impegno che si concluse solo nel luglio 1577. Due mesi più tardi, l’arrivo a Venezia del nuovo re di Francia Enrico III, in transito dalla Polonia per la Francia, fu l’occasione (propiziata dal Giacomo Contarini e Marcantonio Barbaro) per la costruzione di un apparato effimero composto da una grande loggia e un arco trionfale al Lido. Nei giorni seguenti, sulla via di Padova, il re fu ospite dei Foscari nella palladiana villa di Mira.
Negli ultimi mesi del 1574 Palladio richiese il privilegio di stampa nei territori della Serenissima per una edizione illustrata dei Commentari di Giulio Cesare, con 42 tavole e un lungo testo introduttivo sulla guerra dei romani. La richiesta fu approvata dal Senato il 2 marzo 1575 e il libro venne stampato entro l’agosto di quell’anno presso Pietro de’ Franceschi, fratello ed erede del Domenico che nel 1570 aveva edito I quattro libri, morto da poco. È la quarta iniziativa editoriale in cui il nome di Palladio appare sul frontespizio.
Sulla scia di Fra Giocondo, che due anni dopo il Vitruvio del 1511 aveva curato l’edizione aldina illustrata dei Commentari, Palladio sestuplicò il numero delle immagini, collegate al testo da un efficace sistema di rimandi. È senza precedenti un’illustrazione così estesa del classico della guerra antica, e particolarmente efficace risulta l’uso delle illustrazioni a doppia pagina anziché inserite nel testo, con legende chiarificatrici e uno stile di rappresentazione a volo d’uccello, derivato dalle stampe popolari di guerra, comprensibile anche per un pubblico di non specialisti. Palladio nel testo attribuisce l’idea del volume ai propri due figli, morti nel 1572, ma abbiamo tracce concrete di un interesse palladiano per la guerra dei romani in disegni sin dagli anni Quaranta, prodotti accanto a Trissino.
Nel gennaio 1575 un incendio devastò il salone della loggia di Brescia, bruciando gran parte degli interventi di Palladio e Rusconi. Nel febbraio quest’ultimo, accompagnato da Francesco Zamberlan, effettuò un sopralluogo che produsse un progetto di innalzamento di un piano, criticato in sede locale, ma motivato con una lunga scrittura in cui la conoscenza approfondita dei sistemi costruttivi antichi è chiamata a difesa della proposta, e insieme è una difesa di un’architettura basata sul sapere e non sull’empiria.
Nell’estate dello stesso anno una peste terribile devastò Venezia, provocando – in due anni – la morte di un quarto della popolazione. Nel pieno dell’epidemia, il 4 settembre 1576, il Senato decise di offrire un ex voto monumentale, approvando la costruzione di una grande chiesa. Dopo due mesi di accanite discussioni su almeno tre diverse localizzazioni, il 22 novembre 1576 venne prescelta un’area nell’isola della Giudecca, per la quale Palladio approntò dapprima un progetto a pianta centrale e, dal maggio 1577, cominciò a fondare l’attuale chiesa longitudinale, consacrata nel 1592.
La cura dell’edificio fu affidata ai padri cappuccini, che imposero un pauperismo che escludeva materiali costosi. Palladio, a differenza di quanto costretto a fare nei cantieri della Basilica e di S. Giorgio, poté prescindere da preesistenze, e realizzare integralmente una fabbrica in cui ogni parte è perfettamente controllata, portando a maturazione temi e sperimentazioni di almeno due decenni. In facciata la struttura degli spazi retrostanti (navata, cappelle laterali, contrafforti della volta) è proiettata su un unico piano con una lucidità senza precedenti. All’interno, le diverse parti che compongono la pianta (spazio della navata, cappelle a tablino, triconco di absidi e transenna di colonne, coro) sono nitidamente delimitate, anche con cambi di quota, e insieme perfettamente integrate l’una nell’altra grazie a studiati giunti di passaggio, risolti con la stessa naturalezza con cui – accanto agli antichi modelli termali – sono convocate fonti contemporanee come gli studi su S. Pietro a Roma di Bramante, Raffaello e Antonio da Sangallo il Giovane.
Quando il 20 dicembre 1577 il fuoco devastò l’altra ala di Palazzo ducale, con le sale del Maggior Consiglio e dello Scrutinio, insieme ai vertici tecnici delle varie magistrature Palladio fu coinvolto nelle ipotesi di ricostruzione, e propose un radicale rifacimento dell’edificio in forme ‘all’antica’, riconosciuto (ma non vi è accordo fra gli studiosi) in un disegno oggi a Chats-worth, nella Devonshire Collection.
Nel gennaio 1578 Palladio fu costretto a difendere con una lunga memoria il proprio progetto per S. Petronio, anche recandosi personalmente a Bologna, e ne approntò una nuova serie culminante con una versione a pronao aggettante, come quella pensata per la facciata della chiesa di S. Giorgio a Venezia.
Insieme a consulenze e progetti a Vicenza, in Friuli e a Belluno, a imprese veneziane, come il monumento per Alvise Mocenigo nella basilica dei Ss. Giovanni e Paolo (1577), rimasto incompiuto, o fiorentine, come il progetto per la cappella Nicolini in S. Croce (pagato nel febbraio 1580), nell’ultimo scorcio di vita Palladio lavorò intensamente a un’edizione illustrata delle Storie di Polibio, giungendo alle prove di stampa di 42 tavole con battaglie e assedi e alla stesura di didascalie e introduzione.
L’opera è dedicata a Francesco de’ Medici, cui è possibile Palladio consegnasse a Firenze personalmente, nell’ottobre 1579, un esemplare con le tavole e l’introduzione manoscritta inserite fra le pagine di una precedente edizione a stampa. Come per il Cesare l’interesse palladiano poteva essere imprenditoriale, legato al fiorente mercato veneziano delle pubblicazioni a tema militare, ma era anche connesso al progetto di utilizzare gli ordinamenti antichi per organizzare milizie territoriali in difesa della Serenissima, concepito da soldati umanisti come il vicentino Valerio Chiericati. Insieme a quest’ultimo, intorno al 1574, Palladio offrì una dimostrazione pratica di sbarco e dispiegamento sul terreno di circa 500 uomini. Di architettura militare Palladio si occupò solo marginalmente, mentre più di una volta le planimetrie di complessi di villa trovarono ispirazione nei trattati militari sulla disposizione dei battaglioni, forme precise ma mutevoli, esistenti grazie a ordini, regole, procedure trasmissibili.
Nel febbraio 1580 l’Accademia Olimpica ricevette in concessione dalla città di Vicenza l’area presso le vecchie prigioni dove avviare la costruzione di un teatro permanente all’antica. Palladio riuscì ad aprire il cantiere, ma morì nel corso dei lavori, che furono portati a conclusione dal figlio Silla (accademico dal settembre 1579) e da Vincenzo Scamozzi.
Per tutta la carriera Palladio aveva trasposto forme e tipologie antiche in edifici e funzioni contemporanee. Il teatro degli Olimpici, invece, fu concepito da architetto romano, con una frons scenae monumentale. Il prezzo pagato a tale assimilazione dell’architettura antica fu un edificio eccezionale quanto inattuale rispetto alle necessità del teatro contemporaneo, con conseguente raro utilizzo dopo la rappresentazione inaugurale del 1585. Gli Accademici inserirono le statue di loro stessi nelle nicchie della scena, vestiti come romani antichi.
Nel luglio 1580 Palladio raccomandò Bernardino Brugnoli, nipote di Sanmicheli, come ‘prefetto alle fabbriche’ di Mantova, e il 25 dello stesso mese Stefano Angarano spedì un resoconto dell’assedio di Lisbona a Giacomo Contarini, con la preghiera di condividerlo con Palladio.
Il 25 agosto 1580 l’Accademia Olimpica organizzò le esequie di Palladio, morto qualche giorno prima, forse il 19, quasi certamente fuori città, in un luogo tuttora sconosciuto.
Si ha notizia della concessione a Silla Palladio nel 1578 dello spazio per una sepoltura nella chiesa di S. Corona a Vicenza, una tomba condivisa con la famiglia Della Fede, ma si ignora la localizzazione precisa e se Palladio vi sia mai stato sepolto. Le spoglie di Palladio furono oggetto nell’Ottocento di una ricerca appassionata, culminata con la grottesca identificazione di un cranio sulla base delle grandi dimensioni, traslato al cimitero monumentale di Vicenza.
Si ha notizia di due ritratti cinquecenteschi di Palladio, opera di Orlando Flacco e di Tintoretto, oggi irreperibili, ma dal 1733 la sua iconografia più credibile si basa su una incisione pubblicata da Montenari.
Corpus grafico: la grande maggioranza dei disegni di Palladio è oggi conservata in Gran Bretagna, soprattutto presso il RIBA di Londra, con presenze minori al Worcester College di Oxford, nella Devonshire Collection di Chatsworth e nella Westminster Abbey Library. Il gruppo più consistente rimasto in Italia è conservato nel Palladio Museum di Vicenza, in deposito dai Civici Musei e dalla Biblioteca Bertoliana, mentre esistono presenze puntuali nel Museo di S. Petronio a Bologna, nella Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia, nel Szépművészeti Múzeum di Budapest, nel Nationalmuseum di Stoccolma, nel Rijksmuseum di Amsterdam, presso la Cornell University (Ithaca, NY).
Per gli scritti di Palladio v., in particolare, Andrea Palladio: scritti sull’architettura, 1554-1579, a cura di L. Puppi, Vicenza 1988; A. Palladio, I quattro libri dell’architettura (Venezia 1570), a cura di L. Magagnato - P. Marini, Milano 1980.
=========================================================================================
|
Archives du blog
vendredi 31 janvier 2020
ANDREA PALLADIO, arhitect (1508-1580)
Inscription à :
Publier les commentaires (Atom)
Aucun commentaire:
Enregistrer un commentaire